SCAFFALE LECCHESE/12: Manzoni finì in manicomio e la storia era... un'altra

Data: qualche anno prima di quel 1628, anno in cui Alessandro Manzoni, «un segaligno grafomane, infioccato e imbasettato all’ottocentesca» fa iniziare la vicenda di Renzo e Lucia, «un ipertrofico romanzo intitolato i “Promessi sposi”».
Rivisitazioni del Gran Romanzo e divagazioni attorno a personaggi e intreccio si sono susseguite fin da quando, nel 1828, ne uscì la prima edizione. C’era dunque bisogno dell’ennesima rilettura? Forse no. Però avremmo perso qualche ora davvero gustosa. Dobbiamo dunque ringraziare Roberto Piumini, scrittore conosciuto al grande pubblico soprattutto per la sua produzione rivolta a bambini e ragazzi.

L'autore (foto dalla testata del suo sito)

Piumini, dunque: si può definire ancora fresco di stampa “La barba del Manzoni (“Marietti 1820”, pagine 207, euro 15), una storia che si svolge appunto qualche anno prima di quel celebre 1628.
I personaggi: li conosciamo già tutti, con qualche variante nella loro quotidianità.
C’è Agnese che lava le lenzuola per il potente don Pedro, il cui figlio quindicenne non è altri che Rodrigo, dall’indole già prepotente e smargiassa; la figlia invece dovrà monacarsi anche se non si chiama Gertrude (ma «la sventurata rispose» comunque, seppure in altro contesto). C’è Lucia che raccoglie menta per profumare le nobili lenzuola e che desidererebbe usarla anche per le proprie, ma  «sono cose da signori. Si comincia a profumare i lenzuoli, e poi non si ha più voglia di pulire la stalla o zappare la vigna». Ci sarebbe pure papà Mondella, ma è via di casa, lavora a Vercurago, vale a dire all’estero, nella repubblica veneta, «perché si guadagna meglio».

La copertina del libro e, a destra, don Abbondio e i bravi

C’è don Abbondio, figura che sappiamo prestarsi a molte caricature e il ritratto che ne fa Piumini è esilarante.  C’è Perpetua che ha 46 anni (cinque di meno del curato) e che uno spasimante stavolta lo trova (altro che le chiacchiere furbesche di Agnese nella notte degli imbrogli): nientemeno che un “bravo” ubriaco, il quale barcollando in piedi a un tavolo sotto la finestra della canonica la chiede in sposa. Lei vorrebbe ritrarsi ma non si decide: quasi un’atmosfera da  Cyrano – evoca l’autore -  che è una delle storie d’amore più struggenti e straordinarie che ci ha consegnato il teatro.
 C’è , ancora, un tonante padre Cristoforo che irrompe in chiesa durante una messa un po’ insolita. 

Perpetua e Agnese

Naturalmente, c’è Renzo che già gira attorno alla Lucia sotto lo sguardo di  Agnese  che lo considera quasi un figlio. Lui ha tredici anni. Lucia non si sa. Ma non dove essere molto più giovane, considerato che incombe la pubertà e i capelli sarà meglio non più portarli sciolti ma in crocchia, trattenuti coi famosi spilloni. Sull’età dei due promessi sposi, lo stesso Manzoni restò vago: di Renzo parla come di un uomo di vent’anni per giustificarne gli ardori, ma quei vent’anni sembrano generici. Di Lucia nulla. Chissà come avrà fatto quel compilatore di Wikipedia secondo cui la Mondella sarebbe nata il 18 ottobre 1613. Se ne dovrà chieder conto ai “manzonisti”. Noi comuni lettori restiamo ignari.
Infine, tra i personaggi c’è lo stesso Alessandro Manzoni. proprio lui. Non è un letterato, ma uno scultore, nemmeno dei più raffinati: realizza cristi barbuti, ma dopo un’aggressione subita a opera di alcuni bellimbusti, comincia a rasare barbe ai crocifissi conservati nelle chiese. Finisce in manicomio, matto davvero (a tempo debito,  il  narratore spiegherà l’irriverenza). Tra le manie, camminare «per intere giornate, su e giù, sulla sponda di Lecco chinandosi ogni tanto a sciacquare uno straccio nel lago».
Il luogo della vicenda è il villaggio di Olate. Vi giunge un gruppo di bravacci forestieri – guidati da tal Marangone – per incontrare il Griso e i suoi. Succede che anche i “bravi” vogliono il loro bel santo protettore, come tutte le corporazioni che si rispettino. La prima ipotesi è addirittura san Francesco «che è un grandissimo Santo, come tutti sanno, e fu il capo dei Francescani, che girano le terre come noi, anche se vanno scalzi, mentre noi abbiamo gli stivali». Poi, il Griso butta sul tavolo un improbabile sant’Attila (consiglio arrivato, per singolari vie, addirittura da Renzo). La discussione si protrae, tra bevute, sghignazzate, bestemmie, liti che rischiano di veder sfoderare coltelli e spade.
Gli abitanti sono impauriti a partire da don Abbondio che si nasconde nel confessionale dove oltretutto si illude di raccogliere il pentimento di un “bravo” (sono cose che possono accadere nella realtà: «Non c’era stata qualche anno prima, la conversione di quell’Attila, quel generale di bravi che, dopo una vita a depredare e ammazzare, aveva fatto la pace con Dio ed era diventato amico del Cardinale?»), ma dovrà  trascorrere una notte di incubi: per esempio, il diavolo in persona che si presenta – ohibò -con la scusa di dover restituire un vecchio prestito; oppure un inquietante incontro con una coppia di bravi che lo aspettano, pensa un po’, a quella cappelletta lungo il viottolo che è solito percorrere. Incubi, appunto.
In quanto al proprio santo protettore, i bravi non ne vengono a capo. A nulla serve la prova sportiva (una sorta di tiro alla fune fatto con un anello di ferro). Ma toh, chi si trova a passare dalla piazza, diretto alle gozzoviglie del palazzo di don Pedro? Il riverito dottor Azzeccagarbugli. Qual miglior consulente?  Ma il leguleo sente puzza di bruciato e si sottrae: trattandosi di materia religiosa – suggerisce – meglio rivolgersi a un prete qualsiasi e don Abbondio è  il più a portata di mano.
La trama si svolge tutto nell’arco di due giorni, ma il resto ve lo lasciamo leggere. Uno spasso. Con cannonata conclusiva.
Dario Cercek
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