SCAFFALE LECCHESE/11: la vendetta contro i poveri dell'efferato condottiero Medeghino raccontata da Minonzio

Fu uno dei momenti in cui la storia lecchese incrociò quella grande, di storia: la storia italiana, la storia anche europea. Era, il momento, uno di quelli nei quali la piega degli eventi assume un'importanza cruciale. Vale a dire in grado di determinare il destino di una terra. Certo, la storia non si fa con i se, ci viene ripetuto. Però quella volta lì, se le cose fossero andate in un modo anziché in un altro, il destino di Lecco sarebbe stato differente. Quella volta lì è la "signoria" del Medeghino sul Lario tra il 1523 e il 1532.

Franco Minonzio

Di quel periodo, Franco Minonzio - filologo classico e storico, docente in pensione, anima della libreria "Parole nel tempo", gestita dal figlio nel rione di San Giovanni - si era già occupato lo scorso anno con il libro "L'altro Medici": ne dovremo parlare, di quello e di altri volumi sul "Medeghino"; così come di una serie di "cose di contorno". Al personaggio e alla vicenda.
Ora, fresco fresco di stampa, c'è il nuovo libro dello stesso Minonzio - "La mala guerra", il titolo: 223 pagine, euro 25, edizioni Polyhistor - che porta l'attenzione sulla vita successiva di Giangiacomo Medici, detto appunto il Medeghino: dal 1532, quando vende la fortezza di Musso e i suoi possedimenti lariani per diventare marchese di Marignano (oggi Melegnano), mettersi al servizio dell'impero e distinguersi per ulteriori efferatezze. Fino alla morte avvenuta nel 1555.
«Per gli storici locali - dice Minonzio - l' identità lariana è stata prevalente. Ma il Medeghino visse altri 23 anni, fu generale di Carlo V e trovò il coronamento della sua carriera alla direzione delle armate imperiali nella guerra di Siena del 1554 e 1555».
La "mala guerra": perché, nonostante in certi secoli non si andasse molto per il sottile, anche allora vigevano regole. C'era la "buona guerra": significava la necessità di porsi dei limiti, di stipulare dei patti che gli eserciti avrebbero dovuto rispettare (difendere i civili, restituire i prigionieri, non infierire inutilmente). Una circostanza che il Medici rifiutò, appunto scegliendo la via della "mala guerra" e distinguendosi per crudeltà, brutalità e spietatezza. «Esercitava autentico terrorismo», prendendosela con soldati e civili: uomini, donne, bambini; saccheggiando, devastando, incendiando, rapinando anche i miseri contadini, come in passato già aveva abituato le genti delle campagne lariane. Annotò un cronista: «Il Marignano volle che il figliuolo impiccassi il padre, et il padre il figliuolo, cosa veramente empia in ogni età».
Secondo l'autore, attorno al Medeghino si è creato un mito che va sfatato. Un mito per il quale finiscono con l'essere messi in ombra gli aspetti più inquietanti. Si dice: tutto sommato è stato uno dei pochi che, in Italia, ha cercato di costruire una realtà autonoma. Si dice: era un farabutto, ma alla mano. Solo un mito, per Minonzio. Che scrive anche, per sgomberare ogni equivoco: «la relatività del giudizio (quello relativo ai "valori" e alla "barbarie" del XVI secolo, ndr) non invalida la necessità di esercitarlo». Che il relativizzare, insomma, non finisca con il giustificare nefandezze umane e quindi, su per li rami di sottigliezze filosofiche, arrivare anche a giustificare certe atrocità del secolo XX e magari dei giorni nostri.
Se il Medeghino lariano è uomo che si muove con energia e concretezza, in sintonia con quanto accade in Italia ed Europa, «quest'altro libro racconta un'altra storia». Il marchese di Marignano «sposa la causa dell'imperatore Carlo V con marmorea fedeltà» e ciò spiega «la crudeltà che contraddistingue il Medici dell'ultima fase».
Filofrancese, antifrancese, imperiale e antimperiale, incarcerato per 18 mesi con l'accusa di tradimento, «biscazziere spregiudicato» (come quando si offre di acquistare il Ducato di Milano sottraendolo agli Sforza), ha gran considerazione da parte di Carlo V, diventa uno degli interpreti più efficaci nell'uso dell'artiglieria che in quei decenni cambiano l'andamento delle battaglie e delle guerre, non si sottrae al saccheggio dei piccoli borghi nelle campagne con il fine ultimo di troncare i rifornimento alle città assediate, ma non disdegnando certo il bottino. E arriva appunto a dirigere la guerra di Siena, «una delle più feroci combattute sul suolo italiano, teatro di cose abominevoli; il marchese di Marignano parte dal presupposto che i senesi siano tutti delinquenti e ribelli e pertanto non meritino rispetto alcuno».

«Nella proclività del Marignano alle atrocità - scrive Minonzio rispondendo alla domanda su cosa resti del "mito" del marchese - si intravedono anche (altri) motivi. Innanzitutto per lui, nato da una famiglia di nobiltà decaduta, ma pur sempre di nobiltà, segnalerei il disprezzo verso le plebi contadine: gli ambienti urbani alimentano ancora nel ‘500 una visione del lavoratore della terra che ne accentua i tratti di durezza vendicativa, di incapacità di comprensione solo mitigata da un'atavica astuzia, da una rozza e bruta sensualità animalesca, quale in guise deformate già è attestata della feroce satira antivillanesca medievale, che fiorisce in Italia più che altrove». E ancora: «Il sentimento della propria nobiltà immeritatamente conculcata induceva in lui un duplice sentire: una sconfinata ammirazione verso la grandezza e un rabbioso disgusto verso quel piano della realtà (la fame, l'indigenza, l'inferiorità sociale) entro il quale era stato pro tempore costretto a macerarsi, vedendo impedita e trattenuta la sua energia protesa alla conquista di una posizione eminente».
Quella posizione eminente che certamente arrivò ad avere da morto: la sepoltura, caso raro, in Duomo a Milano. La salma riposa in un mausoleo nel quale sono state deposte anche le spoglie del fratello Gabrio, morto in battaglia a Mandello e inizialmente sepolto nella chiesa di Castello sopra Lecco (anche per questo torneremo a parlarne).
Del resto, il Medeghino aveva pur sempre anche un fratello papa: quel Giovan Angelo salito nel 1559 al soglio di Pietro col nome di Pio IV.
«Ma per ripulire l'immagine del Medeghino - sottolinea un veemente Minonzio - non bastò il risarcimento delle vittime delle sue vessazioni deciso dal fratello Giovan Angelo, e in fondo non bastò neppure lo stupendo, sfarzoso mausoleo del Duomo realizzato (1560-1563) da Leone Leoni, artista di talento immenso e dalla fama canagliesca, già falsario abile con il pugnale quanto con il bulino, sì che quel monumento può indurre la posterità a interrogarsi su chi più avesse lordato il tempio di Dio, se la mano insanguinata di chi vi era onorato o quella dell'artista che ne aveva sagomato l'elegantissimo involucro».
Dario Cercek
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