In viaggio a tempo indeterminato/129: ormai parliamo Maya!

Eccoci qui dalla piccola cittadina di Bacalar dove dovevamo essere solo di passaggio, ma ci siamo ritrovati a rimanere per due mesi e chissà ancora per quanto tempo.
Ieri, per spiegare come comportarsi nelle nuove fasi “del semaforo”, oltre alla solita macchinetta con altoparlante che gira per le strade emettendo una musichetta che ormai associamo solo alle brutte notizie, hanno consegnato anche dei volantini.
Si tratta di 4 paginette con disegnini e vignette in cui spiegano che per la “nueva normalidad” delle prossime settimane ci si comporterà a seconda del colore del semaforo.
Un semaforo che ha quattro colori e non tre: rosso, arancione, giallo e verde.
I colori dipendono dalla quantità di casi e dal livello di occupazione degli ospedali presenti.
A ciascuno corrisponde un grado diverso di riapertura delle attività.
Non essendoci casi a Bacalar, speravamo almeno in un bell’arancione che ci avrebbe permesso di rivedere la laguna, che con 40 gradi sarebbe stata una vera benedizione.
Ma niente, siccome siamo vicini a una città con molti casi, rosso anche per noi.
Continuiamo a consolarci con le immagini per ora, dato che la fortuna non sembra essere dalla nostra.

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Dopo l’ennesima speranza che va in fumo, mentre stavamo per buttare quel volantino, noto che è scritto in doppia lingua: spagnolo e maya.
Wow, maya… solo pronunciare quella parola mi fa pensare alla scuola quando si studiavano quelle antiche civiltà chiamate Maya e Aztechi.
Onestamente non è che mi ricordi poi molto degli studi di quegli anni. Anzi, non sapevo nemmeno esistesse una lingua maya e che qualcuno la parlasse ancora.
I Maya erano tornati alla ribalta nel 2011 quando, secondo una loro profezia, sarebbe dovuto finire l’universo.
Mi hanno sempre incuriosito, ma mai fino al punto di informarmi bene su di loro e soprattutto sulla lingua che parlassero.
Complice la quarantena e quel volantino in doppia lingua, mi sono messa a fare qualche ricerca.
A incuriosirmi sono state quelle parole che contengono un’infinità di “k”, “j” e “tl”, e che suonano così diverse dallo spagnolo ma allo stesso tempo, dopo averle lette spesso in giro per questa zona del Messico, sono quasi familiari.
Per un attimo mi sono sentita come Indiana Jones che cerca di svelare il mistero perduto dei Maya.



Prima di tutto ho scoperto che nel linguaggio comune messicano si usano molte parole Maya e che alcune di queste sono arrivate fino a noi.
Yucatan, ad esempio, è il nome della penisola dove ci troviamo proprio ora e deriverebbe dalle parole “ciu-than” che in lingua maya significano “noi non vi capiamo”.
Era la frase più sentita dagli spagnoli che erano sbarcati in questa zona del Paese alla ricerca dell’oro. Non trovandone nemmeno una pepita, avevano reagito con la violenza e l’unica frase che gli indios avevano avuto il tempo di dire era “non riusciamo a capirvi”.
Altra parola è “aguacate” che in spagnolo significa avocado. Deriverebbe dal nome maya “huacatl” che significa “testicolo”, e basta guardare un frutto per intuire la somiglianza nella forma.



Rimaniamo in tema cibo con il cioccolato. Il cacao era già coltivato dai Maya più di 2.500 anni fa. Il nome "cacao" deriva dalla parola "cacahoatl", che significa "succo amaro", e "cioccolato" a sua volta dalla parola “xocolatl”, che indica la bevanda calda che si ottiene dai frutti del cacao.
Altro termine che suona molto bene in spagnolo è “chicle” ad indicare la gomma da masticare.
In questo caso dietro c’è una storia molto particolare che onestamente mi ha parecchio scioccato.
Il chewing-gum non è stato inventato negli USA bensì in Messico.
Pare, infatti, che gli indios del sud del Paese avessero l’abitudine di tenere in tasca una pallina di una materia gommosa chiamata “tzicli”, da cui ogni tanto staccavano un pezzetto per masticarlo. Questa sostanza era ricavata dai frutti acerbi di un albero originario proprio dello Yucatan, il chicozapote.
I chewing-gum arrivarono al mondo quando un certo Thomas Adams, venuto a conoscenza di questa usanza degli indios di masticare una pallina dal sapore fruttato, ne importò circa due tonnellate negli Usa e ne iniziò la lavorazione.
Iniziò così a diffondersi il lavoro del “chiclero”, colui che a colpi di machete estraeva la sostanza gommosa dalla corteccia dell’albero per nove mesi all’anno. Il raccolto veniva poi fatto bollire per due ore, prima di essere venduto per la produzione di una delle invenzioni più diffuse nel mondo.
Adesso ogni volta che masticherò una gomma penserò ai Maya e a questa penisola, anche se ormai i chewing-gum non sono più fatti con l’estratto della pianta ma con un procedimento sintetico.
Angela e Paolo
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