L'ECO DEL SILENZIO/4: il reparto raccontato dalla dottoressa Aldeghi. 'Ho imparato che con i pazienti si deve parlare'

La dottoressa Maria Rita Aldeghi
Ogni mattina la dottoressa Maria Rita Aldeghi, responsabile dell'Unità abitativa per stati vegetativi, arriva in reparto e si fa riferire dagli infermieri come è andata la nottata degli ospiti, procede con la rivalutazione degli eventuali eventi acuti e quella periodica dei pazienti cronici, infine si dedica alla programmazione di ciò che servirà durante la giornata. Seduta insieme a noi in una delle stanze dell'Istituto in cui lavora da più di trent'anni, parla col fare schietto e rapido tipico di chi si è abituato a ragionare a mente lucida e ad essere sempre pronto per le emergenze. "Tra poco mi toglieranno il camice e mi faranno indossare il pigiama, pronti a mettermi dall'altra parte del letto" dice scherzosamente, ripensando alla sua lunga carriera che ha visto nascere e crescere il Nucleo per pazienti vegetativi come una padrona di casa che lentamente vede le sue stanze popolarsi di nuovi inquilini, i cui fili prima tutti paralleli hanno finito inevitabilmente con l'intrecciarsi. La nostra rubrica dedicata agli ospiti della Residenza "Bettini Pazzini Gerosa Crotta" prosegue così con la sua testimonianza, fatta di quel duplice rapporto distaccato ma allo stesso tempo intimo che lega indissolubilmente un medico ai suoi pazienti.

Prima di entrare nello specifico del suo lavoro all'interno del reparto, saprebbe spiegarci in che modo gli ospiti arrivano fino al Nucleo per pazienti in stato vegetativo? I pazienti entrano nel Nucleo per stati vegetativi solo dopo un percorso specifico. Deve essere stata effettuata una diagnosi di stato vegetativo e il degente deve rimanere nel reparto per Acuti per sei mesi i quali sono, a dirla tutta, quasi pochi per stabilizzare un quadro così devastante. La diagnosi di stato vegetativo - oltre che da un punto di vista strumentale con immagini di risonanza, TAC e valutazioni neurologiche - è codificata da alcune scale di valutazione: in particolare quella che noi utilizziamo come metodo di misura è la Glasgow. Il punteggio massimo è di 15 e indica un paziente sveglio, capace di interagire e di eseguire ordini più o meno semplici: prima di essere dimesso dall'Unità per Acuti - per essere trasferito al Nucleo oppure riportato al proprio domicilio, a discrezione della famiglia - il paziente deve avere un punteggio inferiore o uguale a 10. Finché tale punteggio rimane inferiore al 13 l'ospite può proseguire la sua permanenza nel Nucleo, se invece dovesse salire si può valutare la possibilità di ricominciare con una riabilitazione, rientrare presso il proprio domicilio o trasferirsi presso un altro nucleo RSA.

Qual è l'aspetto che secondo lei è ancora sconosciuto a coloro che - sia come protagonisti che come spettatori - non vivono questa realtà?
La conoscenza di cosa sia realmente uno stato vegetativo. Innanzitutto il termine "vegetativo" è di per sé fuorviante, perché fa pensare ad un qualcosa di statico: in realtà la definizione corretta sarebbe "stato di coscienza non responsiva all'interno delle gravi cerebro-lesioni acquisite". Si tratta di soggetti che non sono in grado di rispondere agli stimoli esterni, ma non sono certo inerti: il non essere in grado di interagire con l'ambiente è una definizione culturale nostra, perché generalmente con il termine "comunicazione" ci riferiamo al classico "botta e risposta", mentre queste persone hanno altre forme di reazione al dolore, alla gioia o alla sofferenza. Anche pazienti con punteggi identici sulla scala di Glasgow spesso mostrano modi totalmente diversi di interagire con l'esterno: è come se all'interno dello stesso contenitore ci fossero infinite sfumature.

E, in merito a questo, come cambia il suo modo di relazionarsi con i suoi pazienti?
Noi abbiamo imparato che con il paziente si parla: anche se non c'è una risposta di tipo verbale, sappiamo che quello che noi diciamo - anche attraverso i gesti o semplicemente il tono di voce - determina una reazione piuttosto che un'altra. Se tocchiamo bruscamente i pazienti quasi tutti hanno un sussulto, mentre quando li si tocca delicatamente questo non accade. Quando arrivano dei nuovi ospiti, anche se essi sono in una condizione di coma profondo che teoricamente non dovrebbe permettere nessun tipo di risposta, notiamo che all'inizio sono più tesi: solo quando cominciano a riconoscere luci, suoni, odori e il tocco degli operatori si rilassano e anche fisicamente si dimostrano meno ipertonici e rigidi.

E per quanto riguarda il rapporto parallelo con i famigliari? 
I famigliari si trovano come catapultati su un altro pianeta, perché il proprio congiunto esce di casa sano e non ritorna più. La loro vita viene quindi di conseguenza stravolta tanto quanto quella del loro caro. I primi sei mesi sono da incubo, perché tra il 50% e l'80% dei casi i pazienti muoiono a seguito delle complicanze dell'evento acuto o a quelle successive. Coloro che sopravvivono, vivono poi un altro momento di crisi, ovvero il trasferimento dall'Unità Acuti al Nucleo per stati vegetativi: passano così da un ambiente fortemente tecnologico ed intensivo ad uno più assistenziale, dove le cure mediche vengono effettuate in modo più "disteso" e meno aggressivo. I parenti quindi iniziano a temere che ci sia un abbandono della cura dei propri cari e, come se non bastasse, il non sapere a cosa andranno incontro rende il tutto ancora più incerto e provoca una percezione di mancanza di controllo. Dopodiché inizia il lutto mai elaborato: il famigliare sa benissimo che l'evento catastrofico è dietro l'angolo, tanto che il minimo starnuto crea il panico.

La dottoressa in un momento libero, sulle amate montagne
In questi suoi tre decenni di esperienza sul campo c'è stato un caso clinico che l'ha particolarmente segnata?
Sono stati tre i casi che mi hanno più colpito. I primi due sono stati tentativi di suicidio. Eravamo ancora lontanissimi dalla creazione dei Nuclei per stati vegetativi o stati critici che abbiamo oggi, tuttavia - essendo una RSA grossa e molto vicina all'ospedale - abbiamo sempre accolto anche casi abbastanza complessi. Un uomo e una donna si sono sparati e sono sopravvissuti finendo però in uno stato di coma. Dal punto di vista fisico erano molto menomati e - stiamo parlando di vent'anni fa - gli strumenti a disposizione per curare questi pazienti erano quasi da inventare sul campo. Osservandoli a letto in quelle condizioni, mentre facevo di tutto per prendermi cura di loro, sono arrivata a domandarmi: perché noi dovremmo farli sopravvivere a tutti i costi quando è chiaro che volevano qualcosa di diverso per loro stessi?  Il terzo caso che mi è rimasto impresso riguarda invece una demenza devastante che ha colpito una donna di soli quarant'anni con quattro bambini piccoli: quella situazione aveva messo a dura prova la famiglia, il marito e anche me.

In quei momenti, in cui la stanchezza e la frustrazione prevalgono su ogni altra cosa, qual è il suo rimedio per allentare la tensione e prendersi una pausa dal suo lavoro?
Tolgo il camice, metto lo zaino in spalla, gli scarponi ai piedi e faccio fatica su un sentiero di montagna. Questo è quello che davvero mi aiuta a svuotare la mente. A me serve più di qualsiasi terapia.

Ha una posizione rispetto alle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento e al testamento biologico? 
Io credo che avere delle indicazioni su come il paziente vuole essere curato sia di fondamentale importanza, perché spesso per coloro che fanno le veci di una persona è difficile capire cosa sia appropriato all'interno del setting di cura. Il poter decidere per sé stessi - sia che questo significhi rinunciare alle cure mediche sia che invece metta in luce la volontà personale di essere curato fino all'ultimo giorno - è la cosa che più conta.

Continua/5
Francesca Amato
Invia un messaggio alla redazione

Il tuo indirizzo email ed eventuali dati personali non verranno pubblicati.