Lecchesi all'estero/7: l'altro 'lato della medaglia' raccontato da Anna Tentori, in difficoltà nella vita da au pair in Irlanda
Durante questa settimana abbiamo fatto un viaggio per il mondo alla scoperta dell’America, dell’Australia, dell’Irlanda e del Giappone, attraverso il racconto di emozionanti esperienze vissute da giovani lecchesi che hanno avuto la voglia, il coraggio e la curiosità di immergersi in una nuova realtà. Le loro parole hanno testimoniato quanto questa avventura possa cambiare la vita arricchendola, regalando ricordi magnifici, consentendo di incontrare persone sensazionali, di fare nuove conoscenze, di crescere e conoscere sé stessi. Tutti coloro che abbiamo intervistato hanno invitato altri giovani a “buttarsi” in tale esperienza, senza lasciarsi spaventare dalle difficoltà iniziali, aprendosi alle novità: perché c’è tutto un mondo da scoprire fuori dal nostro Bel Paese. Le storie che avete letto vi hanno reso partecipi di avventure positive, che hanno dimostrato come questi programmi di scambio culturale, nella maggior parte dei casi, vadano a buon fine. Tuttavia, purtroppo, non sempre i ragazzi partiti per l’estero rientrano soddisfatti di quanto hanno vissuto. È proprio per permettervi di conoscere “l’altra faccia della medaglia” che vi racconterò la mia esperienza.

Anna Tentori
Lo scorso gennaio, dopo aver messo in pausa i miei studi universitari, ho deciso di realizzare finalmente un sogno che da molti anni custodivo: quello di vivere, per un periodo più o meno lungo, in un paese estero, per migliorare il mio inglese e conoscere una nuova cultura. Questo desiderio aveva iniziato a germogliare in me quando, durante il terzo anno di liceo, una delle mie professoresse aveva esposto alla classe l’opportunità di studiare fuori dall’Italia. Mi aveva incuriosito molto l’idea, ma mi era mancato il coraggio di partire. Lo scorso inverno (vista la decisione di sospendere il mio percorso universitario ad indirizzo storico, per riflettere su ciò a cui realmente volevo dedicarmi) mi sono ritrovata completamente spaesata, senza aver idea di cosa fare, quindi mi sono detta: “Bene Anna, è questo il momento giusto, parti come ragazza alla pari!”. Avevo bisogno di nuovi stimoli, di immergermi in qualcosa di completamente diverso dalla mia solita vita calolziese. E così sono scappata: sì, “scappata”, non c’è parola migliore per descrivere la mia partenza. Non ci ho ragionato, ho fatto tutto il più velocemente possibile: nel giro di una settimana ho scelto il paese, la famiglia, e dopo poco meno di un mese ho preso l’aereo. Mi sono buttata completamente alla cieca, e, con il senno di poi, questo è stato il mio grande errore.

Prima di tutto, perché ho scelto l’Irlanda? In realtà il mio sogno è sempre stato quello di andare in America, paese che ha sempre suscitato in me grande interesse. Il problema è stato il tempo limitato a disposizione: visto che avevo comunque deciso di riprendere i miei studi a settembre, potevo partire solo per quattro o cinque mesi, un tempo troppo breve per un’esperienza in America. La mia intenzione era quella di imparare l’inglese e quindi volevo andare in un paese in cui esso fosse la lingua ufficiale. Tra le varie opzioni c’era l’Irlanda, dove mia cugina aveva vissuto una bellissima esperienza; quindi, un po’ per il riscontro positivo avuto da lei e un po’ per il fascino del folklore irlandese, l’ho scelta. Mi è stato subito consigliato il sito “AuPairWorld” (agenzia online per il collocamento alla pari, dove famiglie e aspiranti au pair possono mettersi direttamente in contatto, senza intermediari) e ho così realizzato il mio profilo. Subito due famiglie mi hanno contattata. Ho iniziato a scambiare messaggi con entrambe e a parlare con loro tramite Skype. Una delle due, non so per quale motivo, mi aveva trasmesso molto calore: mi dava l’idea di una famiglia meravigliosa, pronta ad accogliermi con affetto. Non ci ho pensato due volte e ho scelto proprio questa: madre manager nel campo infermieristico; padre muratore; tre bambini: due gemelli, maschio e femmina, di dieci anni, e una di quattro. Ho così fatto la valigia, ho salutato la mia vita italiana e sono partita: destinazione Ballinagh, contea di Cavan, nord Irlanda. Sono atterrata all’aeroporto di Dublino in una tipica giornata di pioggia irlandese. Ad aspettarmi c’erano la mia host mum e il bambino, Dylan. Abbiamo impiegato due ore in macchina per raggiungere la mia futura casa e, tra le chiacchiere, ho potuto ammirare il magico paesaggio irlandese: non c’erano montagne a coprire l’orizzonte, ma ampie distese di prati verde brillante, i quali si stendevano all’infinito ospitando, qua e là, grandi case che mi parevano piccoli castelli. Ero estasiata dalla possibilità di vivere in quel luogo.

È così iniziata la mia avventura irlandese: mi piacerebbe molto poterla definire “meravigliosa”. Ma così non è stato. Mi sono trovata completamente isolata: la famiglia non abitava a Ballinagh, ma a 13 minuti di macchina da tale località, e a 20 minuti da Cavan, capoluogo della contea. Non avevo a disposizione alcuna macchina e la prima fermata del pullman si trovata a Ballinagh: in pratica non avevo possibilità di spostarmi. Abitando in campagna, la maggior parte del territorio era formata da campi, con case sparse qua e là, senza alcun negozio, pub o luoghi di aggregazione. Passavo le giornate in casa, non solo quando lavoravo, ma anche nel mio tempo libero. L’unica possibilità che avevo era quella di fare lunghe passeggiate esplorando le colline irlandesi: con la musica alle orecchie camminavo ore e ore, fotografando il meraviglioso paesaggio. Dominavano il verde brillante dei prati, l’intenso blu del cielo e il giallo acceso delle ginestre: una meraviglia. Posso dire di essermi innamorata del famoso cielo d’Irlanda: è veramente “un oceano di nuvole e luce”, un dipinto mozzafiato.

I weekend erano i momenti peggiori: la famiglia usciva per incontrare gli amici o per andare a vedere le partite di Gaelic Football dei bambini, ma senza invitarmi e rendermi partecipe. Non avendo i mezzi per muovermi, rimanevo in casa da sola, e questo non faceva che aumentare il mio disagio e il mio sconforto. Un sabato mi ricordo di aver chiesto alla mia host mum se il giorno dopo, visto che ogni domenica si recavano a Cavan per la messa, sarebbero stati disposti ad accompagnarmi in città, dove avevo voglia di passare la giornata. La sua risposta è stata: “Scusami, ma domani andiamo da un’altra parte e non riusciamo a darti un passaggio”. L’idea di stare ancora ore a casa da sola mi angosciava e quindi la mattina mi sono incamminata per raggiungere la città: ho vagato per più di tre ore nella campagna e, distrutta, sono arrivata a Cavan, dove ho trascorso il mio pomeriggio.

Anna con l'amica Elena
La mattina dovevo farmi trovare in cucina alle 8.00 per preparare le cartelle scolastiche dei bambini e servire loro la colazione. Poco prima delle 9.00 la madre scendeva e portava i piccoli a scuola, dopodiché potevo fare colazione, per poi pulire tutto. Avevo una serie di lavoretti da fare ogni giorno: svuotare la lavastoviglie o riempirla; pulire i bisogni del cane, Bubbles; fare una o due lavatrici, per poi ovviamente stendere i vestiti e ritirare quelli asciutti; rimettere nei cassetti la biancheria di tutta la famiglia; rifare i letti dei bambini. In più, a seconda del giorno, dovevo eseguire altre faccende domestiche: stirare; passare aspirapolvere e straccio sui pavimenti delle varie stanze o pulire la cucina. Alle 12.45 tornava Grace, la bimba più piccola, con la quale giocavo fino alle 14.30. A quel punto dovevo iniziare a cucinare la “dinner” (cena), in modo che, arrivati alle 15.20 anche Dylan e Julie, potevamo mangiare tutti insieme. Finito il pasto, dovevo pulire tutta la cucina e aiutare i due più grandi nei compiti scolastici: matematica, irlandese e inglese. Un delirio: era complicato tenere a bada la piccola e intanto mantenere la concentrazione dei due bambini più grandi! Era forse il momento peggiore! Finito ciò, passavo il resto del pomeriggio con loro: se il tempo lo permetteva stavamo fuori, giocando a “hide and seek” (nascondino), a calcio, a “cops and robbers” (poliziotti e ladri) o a “catch” (acchiapparella).

Finivo di lavorare tra le 17.00 e le 19.00, tutto dipendeva da quando i genitori tornavano a casa. Avevo poi tempo libero, che passavo passeggiando o stando un po’ con loro. Non mi sono mai sentita parte della famiglia, ma solo una completa estranea: una ragazza che lavorava in casa loro, niente di più. Non cercavano di coinvolgermi nella loro vita e neanche si mostravano interessati a me. I bambini erano veramente impegnativi: abituati a ottenere sempre tutto dai genitori, non mi ascoltavano e si comportavano come volevano. Non sono stata la prima ragazza alla pari da loro: ne avevano avute altre quattro o cinque prima di me, e di conseguenza sapevano come approfittare di una giovane in difficoltà con la lingua e non informata su cosa potessero o non potessero fare.

I rapporti con i genitori erano altrettanto difficili: inizialmente si approcciavano a me con una cortesia costruita, trasformatasi poi in distacco. Solo nell’ultima settimana trascorsa lì posso dire di aver avuto un approccio più caloroso con la madre: era più disponibile a parlare e scherzare e più interessata nei miei confronti. Le uniche parole che invece scambiavo con il padre riguardavano “the weather”, cioè le condizioni atmosferiche. Non si è instaurato alcun vero rapporto, non abbiamo condiviso niente che non riguardasse il mio lavoro in casa loro. Ero pervasa da una continua sensazione di solitudine e disagio, ero un pesce fuor d’acqua, non riuscivo a sentirmi “a casa”.


Fortunatamente, dopo due settimane dal mio arrivo, in una località situata ad un’oretta a piedi da me, è arrivata un’altra ragazza italiana, Elena, anche lei lì per vivere l’esperienza di ragazza alla pari. Non ci siamo viste molto, solo quattro volte in due mesi, ma con naturalezza abbiamo instaurato una bella amicizia; mi ha aiutata molto, non facendomi sentire sola e ascoltandomi quando ne avevo bisogno. Con lei ho passato i momenti più felici del mio soggiorno, in particolare un weekend trascorso ad esplorare la capitale irlandese: abbiamo ammirato l’imponente St. Patrick's Cathedral e visitato la Marsh’s Library, la biblioteca pubblica più antica della città; abbiamo oziato stese sull’erba del St. Stephen's Green, parco pubblico nel centro di Dublino, ed esplorato viuzze costellate dai tipici pub irlandesi del centro sud della città, immerse nella festosa vita notturna.

Sono rimasta incantata dalla piccola capitale dell’Irlanda. Mentre tutti i ragazzi intervistati ci hanno raccontato che faticavano a ricordare momenti negativi durante la loro esperienza, a me invece risulta difficile trovarne di belli. Però, oltre a questo weekend a Dublino, ci sono stati altri due episodi che ricorderò per sempre con affetto. Una delle ultime domeniche in Irlanda mi sono recata da sola a Dublino per esplorarla un’ultima volta. Al ritorno, oltre al bus che portava dalla capitale a Cavan, ho dovuto prendere un altro pullman per recarmi da Cavan a Ballinagh. Quell’ultimo tratto di strada è stato speciale: sul mezzo pubblico c’ero solo io, e a farmi compagnia l’autista, un anziano e amichevole irlandese. Abbiamo passato il tempo a parlare e a scherzare, lui era molto interessato alla mia esperienza, dimostrandosi anche dispiaciuto che fosse negativa: mi ha domandato quanto fosse numerosa la popolazione italiana; mi ha chiesto da dove venissi in particolare; mi ha raccontato delle sue vacanze in Italia; si è mostrato eccitato per il prossimo arrivo del papa a Dublino; mi ha raccontato molte cose sul suo paese. Ma ciò che più mi è piaciuto è stato il suo tentativo di insegnarmi qualche frase in irlandese! In particolare “go raibh maith agat go mór”, ovvero “grazie mille”. Me l’ha fatta ripetere tantissime volte, mostrandosi paziente nei confronti dei miei continui errori! Una volta arrivati al capolinea ha insistito per aspettare con me che arrivasse la mia host family a prendermi. È stato veramente un momento bello, in cui finalmente ho potuto fare esperienza del famoso “caldo irlandese”. Non mi scorderò mai il volto di quell’uomo!

Il secondo momento che ricordo con gioia è stato un weekend. Proprio nel periodo del mio soggiorno si trovava come exchange student in Irlanda (più precisamente a Ballyconnell, cittadina situata a quaranta minuti di macchina da Ballinagh) anche Elena, una compagna di scuola di mia sorella. La sua host family, venuta a sapere della mia situazione, ha insistito per ospitarmi qualche giorno, rendendosi addirittura disponibile a venire a prendermi e poi a riaccompagnarmi a casa. Quei giorni sono stati piacevoli: ho trascorso il sabato sera al pub con Elena e i suoi amici; ho assistito a una partita di Gaelic Football femminile; ho passeggiato nel bellissimo parco di un club di golf. Ma il momento più bello è stato quando, la domenica mattina, Marie (host mum di Elena) dopo colazione ci ha raccontato la storia di Coney Island, una piccola isola nella baia di Sligo, nel nord ovest dell’Irlanda, che si intreccia a leggende di sirene, fate e fantasmi. Il suo nome deriva dal termine gaelico “coinin” che vuol dire “coniglio”, animale assai diffuso sul suo territorio. Abitata nel 1862 da 124 persone, dal 1750 ad ora vi risiede un unico nucleo familiare. Lì l’elettricità è arrivata solo nel 1999, grazie alla posa di un cavo sotterraneo, e fino a quel momento lo stile di vita dei pochi abitanti era simile a quello diffuso prima del XIX secolo. È stato un momento veramente interessante, dove ho potuto assaporare un po’ il fascino popolare irlandese. Mi sono inoltre sentita veramente accolta.

Sarei dovuta rimanere in Irlanda fino a settembre, ma ho preso la decisione di tornare in Italia dopo soli due mesi. Sono andate storte molte cose: dal rapporto con la famiglia al mio approccio personale con quell’esperienza. Non voglio dare tutta la colpa a chi mi ha ospitato per come è andata, non sarebbe giusto né leale. Anche io ho contribuito a rendere negativa quest’avventura. Forse mi ero creata troppe aspettative, immaginandomi un’esperienza idilliaca e senza alcun problema, caratterizzata da un dinamico scambio culturale e da uno splendido rapporto con la famiglia. Forse non ero davvero pronta a partire. Due cose so per certo: la prima è che ho sbagliato a buttarmi senza pensare, senza valutare bene la situazione in cui mi sarei ritrovata, senza scegliere con cura la famiglia con cui vivere; la seconda è che non mi sarei dovuta abbattere per le difficoltà incontrate, avrei dovuto reagire. Con lo sguardo di adesso mi sembra veramente di aver sprecato una magnifica opportunità di imparare l’inglese e di far mia una nuova cultura; invece di “scappare” di nuovo avrei potuto cambiare famiglia e magari provare a vivere veramente quello per cui ero partita.

Alla luce di quanto da me vissuto, i consigli che mi sento di darvi, nel caso in cui voleste cimentarvi in un’avventura simile, sono i seguenti: non prendetela con leggerezza, valutate bene questa esperienza, non siate frettolosi, cercate di ottenere più informazioni possibili, evitando di andare alla cieca; non fatevi abbattere dalle difficoltà, piuttosto cercate un modo per superarle. In ogni caso non posso dire di non aver imparato nulla dal mio viaggio in Irlanda: ho avuto la possibilità di esplorare me stessa, imparando a convivere con le mie fragilità e ad accettare particolari sensazioni interiori; ho imparato a cavarmela da sola, senza la presenza fisica della mia famiglia. Convivere con persone estranee con cui non riuscivo a instaurare una vera relazione mi ha resa più consapevole della bellezza del rapporto familiare. Essermi cimentata, anche se per poco, con una lingua che non era la mia mi ha reso più sciolta nel rapportarmi con persone estranee. Ho intrecciato due belle amicizie, quelle con Elena ed Elena, che continuo a coltivare con gioia. Nonostante il poco tempo trascorso lì, mi porto dentro l’Irlanda: ho lasciato in quella terra una piccola parte di me ed essa mi ha regalato una piccola parte di sé, che avrò nel cuore per sempre.
Anna Tentori